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C’è qualcosa nello stracotto che lo rende più di un semplice piatto. È tempo, è attesa, è casa. È una narrazione che si sviluppa lentamente, a fuoco basso, come i racconti migliori. Non stupisce che questo piatto – così profondamente italiano, così legato alla memoria collettiva – abbia trovato spazio nella letteratura, nel cinema e nell’immaginario culturale del nostro Paese. Non sempre citato con il suo nome, ma sempre presente, sotto forma di simbolo, evocazione o sfondo silenzioso.

Il primo legame evidente è con la narrazione familiare. In molti romanzi italiani ambientati nel Novecento, le scene più cariche di significato sono quelle che ruotano attorno al pranzo della domenica, alla tavola imbandita, ai profumi che si diffondono già all’alba. Prendiamo La storia di Elsa Morante, ambientata nella Roma povera del dopoguerra: lì, ogni gesto in cucina è carico di significato, ogni cottura lenta è un atto di resistenza e cura. Anche se non viene chiamato “stracotto”, il piatto che cuoce per ore nella cucina di Ida Ramundo ha tutto il suo spirito.

Nel cinema italiano il cibo è spesso protagonista silenzioso. In La famiglia di Ettore Scola, il passare del tempo è scandito dai pranzi, sempre uguali nella loro struttura eppure sempre diversi nei dettagli. Il piatto centrale non è quasi mai nominato, ma basta osservare la pentola fumante, il cucchiaio che gira piano, per riconoscere un gesto familiare a tutti: qualcuno sta preparando qualcosa che ha bisogno di ore per dare il meglio. È il gesto dello stracotto, che nella sua lentezza contiene affetto, pazienza, tradizione.

In Amarcord di Fellini, lo stracotto è presente più nel non detto: è nell’atmosfera, nella cucina di casa, nei pranzi infiniti che raccontano più delle parole. Il cibo è collante tra le generazioni, e lo stracotto diventa simbolo di un’Italia che cambia ma resta legata ai suoi riti.

E poi c’è Big Night, film italo-americano di Campbell Scott e Stanley Tucci, dove la cucina è tutto. Qui lo stracotto non è presente in senso stretto, ma lo spirito è lo stesso: il tempo speso per cucinare un piatto è tempo speso per gli altri. È amore tradotto in sapore. In una delle scene più memorabili, il silenzio che accompagna la preparazione del timballo ha la stessa intensità di una cottura lunga, di quelle che non ammettono fretta.

La letteratura gastronomica, da Artusi in avanti, ha sempre trattato lo stracotto come uno dei capisaldi della cucina italiana. Artusi, nella sua Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, dedica ampio spazio a questa preparazione, indicandone i tempi, le varianti, le regole. Ma soprattutto, trasmette l’idea che lo stracotto sia un piatto democratico: nasce da tagli poveri, ma con il giusto tempo e attenzione, si trasforma in qualcosa di straordinario. Esattamente come una storia che parte da dettagli semplici e cresce fino a diventare universale.

Persino la cucina contemporanea, nei romanzi e nei film degli ultimi anni, tende a recuperare lo stracotto come simbolo di ritorno alle origini. In tempi in cui tutto è veloce e superficiale, raccontare una cottura di sei, otto ore è un atto di poetica resistenza. Lo stracotto diventa così metafora perfetta per il bisogno di radici, per il ritorno a una dimensione più umana.

Il cibo è sempre stato racconto. E lo stracotto, in particolare, è uno dei più intensi. Non parla solo alla bocca, ma alla memoria. È un piatto che si ascolta, che si aspetta, che si trasmette. Come una buona storia.