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Se chiudi gli occhi e ascolti con attenzione, potresti ancora sentirlo. È un suono lieve, quasi un respiro: il borbottare lento di una pentola che cuoce da ore, il battito regolare di un tempo che non ha fretta. Un tempo che sa aspettare. Dentro quella pentola, c’è un mondo antico che si rinnova: lo stracotto. E dentro lo stracotto, c’è lui: il cappello del prete. Un taglio povero, una carne saporita, una storia che torna ogni volta che scegliamo di non avere fretta.

Il cappello del prete non è un taglio qualsiasi. È un simbolo. Si ricava dalla spalla del bovino e deve il suo nome alla forma triangolare, simile alla mitra che indossavano i prelati. Ma quello che conta non è il nome, è la sostanza: è un taglio attraversato da una venatura di collagene, che lo rende duro al taglio ma morbido al cuore, perché sa diventare tenerissimo quando gli si concede tempo. È una carne che non si piega alla fretta, e in questo somiglia alla nostra idea di cucina.

Ogni nostro pezzo proviene da allevamenti selezionati, dove gli animali crescono senza forzature. La qualità inizia da lì. E continua nella cucina, dove ogni passaggio è pensato, calibrato, rispettato. Nulla è lasciato al caso.

Tutto inizia la sera prima, con una marinatura lenta. Il cappello del prete viene immerso in un vino rosso robusto, insieme a cipolla, sedano, carota, uno spicchio d’aglio, qualche bacca di ginepro, pepe nero in grani e una foglia d’alloro. Riposa così, al fresco, per tutta la notte. Il giorno dopo, la carne si asciuga e si rosola con pazienza in un fondo d’olio extravergine d’oliva, fino a quando prende quel colore dorato che sa di inizio.

Nel frattempo, le verdure della marinata si scolano, si tagliano e si fanno appassire dolcemente nella stessa pentola. A quel punto si unisce di nuovo la carne, si sfuma con il vino della marinatura filtrato e si lascia evaporare l’alcol con calma. Poi arriva il brodo caldo, poco alla volta, e si abbassa la fiamma. Da lì in poi, è solo questione di attesa. Otto, dieci, anche dodici ore. Con il coperchio leggermente sollevato, a fuoco basso, come si faceva una volta.

Alla fine, quando la carne si sfalda con una forchetta e il sugo ha assunto una densità vellutata, si assaggia. E si capisce che è pronto. A quel punto, ognuno lo serve come vuole: noi lo amiamo con una polenta morbida, o con una crema di patate all’olio buono, oppure in un panino artigianale, con cipolle brasate e una punta di senape rustica.

Ma la verità è che, qualunque sia la forma, lo stracotto non è mai un contorno. È sempre il centro. Perché è un piatto che ha qualcosa da dire, e lo dice con lentezza, senza urlare, come fanno solo le cose che restano.

Abbiamo scelto di iniziare proprio da questo piatto perché è vero. Perché è nostro. Perché chi viene da certe famiglie, da certe province, lo stracotto non lo dimentica. È la domenica della nonna, è la pazienza della mamma, è il silenzio dopo il primo assaggio. È la lentezza che si fa sapore.

E perché il cappello del prete, come noi, non è il taglio più facile. È quello che ha bisogno di cura. È quello che, se lo tratti bene, sa restituirti tutto.

Lo Stracotto nasce da questa idea: rimettere al centro ciò che merita tempo. In cucina, nella vita, e in quel gesto semplice ma profondo che è sedersi e mangiare qualcosa che vale.

Siamo partiti da qui. Ma questo è solo l’inizio.